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 Progetto Culturale - Punto di vista - Giovani, scommettere ancora 

n° 126 - 13 febbraio 2014

Giovani, scommettere ancora

 

Per capire la questione    

C’è un desiderio che abita la vita di ciascuno. Quando si è bambini assume la forma di piccole cose che i grandi chiamano balocchi, cose di poco conto. L’attesa è forte: quando si attende una cosa, lo si fa come se non ci fosse un desiderio più grande. E quando una cosa arriva – da bambini – la si dimentica in fretta. Perché il desiderio non si spegne mai, le cose non finiscono mai: è l’attesa a essere una percezione intrigante.
«Disperare di uno è renderlo disperato», diceva Mounier. Educare è questa fiducia così testarda nelle possibilità di bene dell’altro, da cercare e attendere con ostinazione ciò che lo può rendere una persona bella. Qui si apre un gioco: quello fatto da chi mette in atto mille stratagemmi per provocare e indurre il fiorire di ogni possibilità; purché l’umanità cresca. E, in fondo, non riconosce ciascuno di noi che può dire di essere ciò che è perché ha incontrato qualcuno che ha voluto, almeno un po’, scommettere sul futuro di quello che saremmo diventati?
In questi giorni il porto antico di Genova, ai Magazzini del Cotone, è diventato lo sfondo dove si incontrano i responsabili delle diocesi italiane di pastorale giovanile. Appuntamento che permette di riflettere e ritrovarsi; ciascuno ha sotto gli occhi i propri territori e le proprie storie di vita: condividere le fatiche aiuta a pensare che l’educazione non è un peso da portare, quanto piuttosto una bella avventura da spartire. A patto che non manchi uno sguardo buono sulla vita degli adolescenti e dei giovani: perché soltanto quando li guardiamo con fiducia, è possibile innescare in loro meccanismi di vita.
Paradossalmente questo atteggiamento chiede a chi si fa carico di progettare e mettere in atto i processi educativi, di essere coraggioso. Non tanto perché bisogna scommettere su un futuro che non conosciamo mai (d’altronde, si diceva, qualcuno l’ha fatto anche con ciascuno di noi), quanto, piuttosto, perché tutto questo avviene in uno scenario completamente nuovo.
In questi giorni è stato ridetto che le figure ecclesiali (e prima ancora ecclesiastiche) che abitano il territorio sembrano essere sempre più distanti dalla vita dei giovani. La questione non è mettere qualcuno sul banco degli imputati. La questione è tornare, come comunità cristiana, a chiederci (come dice il salmo 8) cos’è mai l’uomo perché Dio se ne curi. Questa passione profonda per l’umanità che Dio desidera da sempre, ci può illuminare e rendere capaci di essere significativi per i nostri giovani.
Perché ci abilita a entrare in relazione con loro, ad ascoltarli, a interpretare i loro slanci e anche i loro fallimenti non con risposte già confezionate; come se parlare della loro vita fosse la stessa cosa che scrivere l’oroscopo quotidiano. Si diventa significativi per gli altri quando si vuole bene, non quando ci si mette davanti a loro pensando di offrire una risposta per tutto.
Questo, e solo questo, ci darà la sapienza e il coraggio di scegliere gli atteggiamenti buoni: quelli dell’accoglienza e della cura (come fa il porto quando ricovera le navi); quelli della capacità di spronare le persone a prendere il largo (quando è tempo – l’orizzonte – di attraversarlo). E solo in quel momento un buon educatore si siede a riva. Il cuore che batte è, per sempre, la luce di un faro.
Don Michele Falabretti

Per Approfondire

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