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 Progetto Culturale - Punto di vista - Vivere e pensare la pace 

n° 147 - 18 settembre 2014

Vivere e pensare la pace

 

Per capire la questione     

Non si può leggere la guerra attraverso lo schermo delle notizie o i calcoli politici. Bisogna prima di tutto guardare in faccia gli uomini e le donne travolti dalla guerra. L’ha fatto ieri Papa Francesco, di fronte ai cimiteri di guerra di Redipuglia (italiano) e di Fogliano (austro-ungarico). Ha osservato la sterminata distesa di tombe della prima guerra mondiale: «Tutte queste persone, che riposano qui, - ha detto- avevano i loro progetti, avevano i loro sogni..., ma le loro vite sono state spezzate». Sì, ogni caduto era un sogno per il futuro. Gli è stata rubata la vita. Questa è la guerra: "«La guerra non guarda in faccia nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà...». Per capirla, bisogna partire da queste esistenze spezzate.
Si attribuisce a Stalin (forse a torto) una frase, emblematica dell’atteggiamento di molti di fronte alla guerra: «Un morto è una tragedia, un milione di morti una statistica». Così nel mondo globale, di fronte ai conflitti (e a tante morti), si reagisce spesso con un’indifferenza sazia d’informazioni e d’impotenza. C'è un’evidente caduta dello sdegno verso la guerra e della partecipazione alle vicende dei popoli lontani. È la «globalizzazione dell’indifferenza» di cui il Papa ha parlato a Lampedusa. Il pellegrinaggio di Francesco sui cimiteri della Grande Guerra, a cent’anni dal suo inizio, richiama alla memoria storica. Non si può dimenticare quello che fu, secondo l’acuta espressione di Benedetto XV, il «suicidio dell’Europa civile». 
La lezione della storia è un messaggio al presente, mentre si sta riabilitando lo strumento della guerra per risolvere i conflitti, cala la sensibilità per la pace e si fabbricano tante armi. Nelle parole di Francesco risuona l’esperienza di umanità della Chiesa attraverso il Novecento delle guerre, quasi trasmessa di Papa in Papa. In questo secolo, infatti, i Vescovi di Roma hanno sempre rifiutato le ragioni dell’ideologia e del nazionalismo, guardando la guerra come un dramma che sfigura i popoli e che peggiora il mondo. Cinquant’anni fa, il 4 ottobre 1964, Paolo VI portò alla tribuna dell’Onu questa coscienza gridando: «Mai più la guerra!». Dopo mezzo secolo, Francesco delegittima radicalmente la violenza bellica: «Trovo da dire soltanto: la guerra è una follia». Perché «il suo piano di sviluppo è la distruzione». Le ragioni realistiche e politiche dei conflitti impallidiscono di fronte all’affermazione: la guerra è una follia!
«La cupidigia, l’intolleranza, l’ambizione al potere...» sono il terreno su cui si sviluppa questa follia. Un «impulso distorto» giustificato dall’ideologia: «Anche oggi, dietro le quinte, ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra tanto importante!», ricorda con realismo il Papa. Egli individua tre categorie di «signori della guerra»: i pianificatori del terrore, gli organizzatori dello scontro, gli imprenditori delle armi. Possono essere in conflitto tra loro, ma li accomuna l’indifferenza verso la vita umana: «A me che importa?», «sono forse io il custode di mio fratello?», sono domande che esprimono la loro visione. L’indifferenza al dolore umano è l’ideologia di Caino.
Il centenario della Grande Guerra (conflitto europeo che incendiò il mondo) deve essere l’occasione per una ripresa del pensiero sulla pace, non nella logica d’un pacifismo ideologico ma nella prospettiva di un rinnovato slancio pacificatore. Certo, il mondo attuale è complesso, richiede attenzione, informazione e capacità di penetrazione. Il contrario delle semplificazioni. Ma questo non deve smorzare uno slancio che, dai cimiteri della guerra, giunge ai campi di battaglia di oggi. Sentimento e intelligenza debbono rafforzare la convinzione che non si può più dire: «A me che importa?». Possono spiegare a tutti, in diverse situazioni, la nuda verità: «la guerra è una follia», sempre.
Andrea Riccardi

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